Psicofarmaci: nuova dipendenza?

Il tema dell’utilizzo degli psicofarmaci è molto sentito perché da un lato da anni si sta verificando un abuso di ansiolitici e ed ipnoinducenti (sonniferi), dall’altro è largamente preoccupante il fenomeno di una carenza di trattamento di quei disturbi della mente (i disturbi depressivi, ad esempio ) che potrebbero giungere ad una sicura guarigione con un adeguato trattamento farmacologico .

Assistiamo ad un paradosso : si assumono sempre più farmaci inutili ( e costosi) e non si assumono i farmaci utili. Molto        pesano i pregiudizi sui trattamenti psichiatrici del passato che hanno amplificato l’immagine di trattamenti sedativi , con effetti collaterali pesanti , visibili anche dall’osservatore esterno,capaci , nella fantasia collettiva, di indurre alterazioni della personalità…

L’idea invece del farmaco “buono”, di un alleato a difesa della possibilità di riprendere la propria vitalità ed energia, la propria capacità di decidere e di muoversi nel mondo , è estremamente poco rappresentata. La stessa classe medica vede spesso con diffidenza le terapie psicofarmacologiche.  Eppure chi soffre di disturbi depressivi può vedere modificarsi radicalmente la propria qualità di vita con il ricorso ( attraverso una corretta prescrizione medica ) al farmaco giusto.

L’antidepressivo ha blandi effetti collaterali, solitamente in fase iniziale di trattamento, non è sedativo, non inficia la possibilità di guidare, ( non allenta i riflessi ), è ben tollerato e previene l’insorgenza di ansia e di attacchi di panico , nonché cura e previene la deflessione dell’umore in tutte le sua manifestazioni. I suoi costi alla fine sono minore rispetto agli ansiolitici perché permettono di evitarne la assunzione cronica.

Tuttavia la prima prescrizione che i pazienti ricevono, spesso prolungata negli anni, è l’ansiolitico, che crea dipendenza psicologica e che non cura realmente il disturbo che sta alla base dell’ansia, dell’insonnia o dell’umore depresso. Serve chiarezza, trasparenza, competenza… libertà da pregiudizi.

Serve inoltre un approccio integrato al disagio, un approccio cioè che si occupi sia dei disturbo che della “persona” che ne è affetta, che costituisce l’unica vera garanzia di non divenire dipendenti. 

Serve una cura capace di dare consapevolezza non solo sui rischi/benefici delle cure, e sulle conseguenze delal sua cattiva assunzione in alcuni casi. Ancore di più serve una mobilizzazione delle capacità di reagire agli stress quotidiani, un nuovo stile di vita che mette la consapevolezze di sè e dei propri bisogni al centro di ogni percorspo di cura.

Dr Mario Franzini, Psichiatra, Psicoterapeuta